Liceo delle Scienze Applicate I° e III° al concorso “Tra storia e fantasia” a.s. 2011-12

Tappe del Laboratorio di Storia delle seconde Liceo (a.s. 2011-12)

che hanno portato 

ALLA VINCITA DEL PRIMO PREMIO –  Alunna Maria Laura Rebecchi   (2B LSSA)

E TERZO PREMIO -  Alunno Paolo Vicenzi  (2B LSSA)

nel Concorso storico-letterario: “ Tra storia e fantasia”.

 

1.      Da tempo  nel Liceo delle Scienze Applicate,  gli studenti del biennio partecipano  a due ricerche di carattere storico-formativo.

La prima, interdisciplinare tra storia e geografia, viene svolta durante il primo anno di frequenza, mentre quella successiva consiste nella stesura di un elaborato di carattere storico.

Per la formulazione del secondo documento sono tuttavia necessarie conoscenze che spaziano tra storia, geografia e letteratura, in quanto all’interno della ricerca si prevede l’analisi di documenti provenienti dall’Archivio Storico  di Modena. Quest’anno tra le tematiche della ricerca vi era il fenomeno della peste in Letteratura e Storia. Gli Statutie le  grida, che sono state da noi interpretate  con l’aiuto di un’esperta dell’Archivio, hanno facilitato molto la ricostruzione dello spaccato sociale dell’epoca, oltre all’analisi del testo manzoniano.

 

2.      Lo scorso anno scolastico, alla conclusione del lavoro di ricerca, si è aderito alla proposta di partecipare al Concorso storico- letterario bandito dalla Società Dante Alighieri in collaborazione con l’Archivio Storico di Modena: “ Tra storia e fantasia”

 

3.      Ci racconta Maria Laura Rebecchi , la vincitrice del concorso per la sezione scuole superiori:

L’idea per il testo mi è nata dopo una lezione interamente dedicata ad uno dei personaggi dei promessi sposi, la madre di Cecilia. Le domande su come avrei poi sviluppato un argomento che sembrava già in sè concluso erano molte: ma  tutti sapevano come sarebbe finita la sua vita nella narrazione manzoniana!

Poi, però, ho cercato di ripercorrere a ritroso l’ipotetica storia di questo personaggio fittizio: se aveva due figlie, doveva avere un marito, ma dove era? Morto? Scappato? A queste domande ne sono seguite altre e altre ancora. Ma mancava ancora qualcosa, non potevo continuare a formulare ipotesi senza pensare come pensavano i protagonisti della mia storia, senza immedesimarmi nel loro mondo. Così ho cercato di inserirmi nella mentalità del 1600, di comprendere le credenze del periodo, di analizzare lo stile di vita e il loro mondo. Un grande aiuto mi è arrivato anche da quegli stessi documenti che avevo analizzato per la ricerca.

Così, ho raccolto tutto quello che avevo appreso sulla vita dell’epoca e ho cercato di elaborare una trama che potesse avere una conclusione significativa per la nostra città, ho messo insieme le parole e il contorno è venuto da solo.”

Ecco il testo vincitore del Concorso, premiato il 26 novembre 2012 all’Accademia Nazionale di Scienze, Lettere e Arti di Modena con 150 euro e alcuni volumi.

                                                         

 

Il flagello

Avevo solo dieci anni quando arrivò.

Ricordo che prima che il mio mondo si distruggesse vivevo con la mia famiglia in un grande palazzo, mio padre era un mercante abbastanza conosciuto e commerciava in molti stati, mia madre invece era una donna dedita ai lavori domestici e a noi: si occupava di me e delle mie sorelle in ogni momento sommergendoci di amore e attenzioni, verso di me in particolare. Io ero l'unico figlio maschio che aveva, pertanto solo io sapevo leggere, scrivere e far di conto e mentre mi dedicavo agli studi, le mie sorelle passavano il loro tempo a lavorare in casa, imparando al meglio i lavori domestici.

La nostra vita scorreva così serenamente fino a quando non venne indetta la processione per celebrare San Carlo.  Quel giorno Cecilia era in prima fila quando sotto un ricco baldacchino, s'avanzava la cassa, portata da quattro canonici, parati in gran pompa, che si cambiavano ogni tanto. Dai cristalli traspariva il venerato cadavere, vestito di splendidi abiti pontificali, e mitrato il teschio [1]Lì rimase anche nel momento in cui fecero sfilare i cadaveri di una famiglia afflitta dal terribile morbo. Una volta tornata a casa la  piccola iniziò a sentirsi male. Così mia madre e l'altra mia sorella l'andarono ad accudire, io volevo sapere come stava la mia cagionevole sorella, ma mio padre me lo impedì. 

Il suo volto era scuro e severo quella sera, la sua fronte rimase corrucciata così a lungo! Non penso che si coricò quella notte, perché il mattino seguente quando mi svegliai lui era ancora lì, con la stessa posizione rigida che aveva assunto prima cha mi accingessi a prendere sonno.

"Padre, state bene? mi sembrate un poco assorto." chiesi evitando il contatto con quegli occhi persi in un mare oscuro di pensieri.

"No, non va tutto bene, tua sorella è stata maledetta figliolo, e lo saremo presto anche noi, dall'alba di oggi anche tua madre e l'altra tua sorella non si sentono bene. Per siffatta ragione mi vedi così assorto..." professate queste brevi frasi, riassunse l'espressione riflessiva che per tutta la notte gli era stata "maschera", fino a quando il suo volto non si rilassò un poco.

"Orlando", urlò con voce grave e secca, che fece accorrere l'uomo. "Orlando" ripeté mio padre quando se lo trovò di fronte "voi siete un fedelissimo servitore ed ineguagliabile aiutante" al che l'uomo piegò lievemente il capo, in segno di ringraziamento per i complimenti ricevuti, "ed è per questa ragione che voglio che tu ti occupi di una faccenda molto delicata" soggiunse con parole pronunciate appena più frettolosamente, "vedi, mia moglie e le sue figlie sono state maledette o meglio hanno fatto arrabbiare nostro Signore" mentre pronunciava quel nome abbassò lo sguardo e si fece il segno della croce "e io non posso permettere che tale flagello si estenda anche a me e al mio adorato primogenito"

Dopo quell'affermazione si fermò un istante, come a valutare per l'ultima volta le parole che ormai da ore gli frullavano nella testa come un vortice portatore di distruzione,  ma la pausa durò solo pochi secondi perché poi riprese il discorso linearmente "Per tale ragione ti chiedo di condurre mia moglie e le fanciulle in un edificio il cui affitto sia poco ingente e dar loro le la quantità di denaro che ti sto per consegnare, in modo tale che possano vivere serenamente gli ultimi giorni di vita."

Io rimasi impressionato dalla freddezza con cui quell'uomo parlava della morte di mia madre e delle mie sorelle.

"Ma padre, come potete abbandonare vostra moglie, e le vostre adorate figlie in un momento così difficile per loro? Come potete lasciare la vostra adorata Cecilia e la vostra piccola Agnese alla mercé di nessuno?" cercai di pronunciare tutto questo discorso in maniera pacata e sicura, come mi avevano insegnato, dimostrando di avere autocontrollo e di essere un uomo privo di forti emozioni.

"Non osare suggerirmi quello che devo fare, questa non è una situazione da prendere alla leggera, e io sono tuo padre, perciò quello che dico è legge." Disse l'uomo che avevo sempre ritenuto una figura di riferimento, guardandomi con sguardo inceneritore.

"Ora" riprese il discorso girandosi verso Orlando "noi partiremo oggi stesso. Vai a far sellare i cavalli, prepara i bagagli, fai chiamare un gruppo di guardie e prepara le tue cose. Io mi sarei dovuto recare a Modona per affari l'indomani mattina, credo che lì la situazione non sia così critica come qua, per tale ragione" poi si girò verso di me "ordino" disse enfatizzando la parola "che si abbandoni immediatamente questo luogo. Prendiamo tutto ciò che abbiamo di prezioso,poi prepariamo i bagagli ed avviamoci verso la nostra meta." Così dicendo si incamminò in direzione della sua camera da letto e vi sparì.

Neanche un giorno più tardi eravamo in marcia; la nostra meta era questa cittadina, che io non avevo mai visto, né sentito nominare. Forse era per tale ragione che ne ero così attratto e impaurito allo stesso tempo.

Una parte di me si perdeva a fantasticare sulla bellezza dei palazzi, la pulizia della città, le possibilità di lavoro, mentre l'altra era impaurita a causa dalla mia ignoranza o meglio la mia ignoranza mi impauriva e mi portava a pormi la domanda alla quale avrei avuto risposta pochi giorni dopo. E se in quella città ci fosse già il demonio?

E poi una serie di altri mille dubbi mi oscurava il cervello, contornandolo di una nube densa e ricca di pensieri: Chissà come sarebbe stato vivere lì? Avrei avuto qualcuno che si prendeva cura di me? Sarei riuscito a studiare?

Ad un certo punto, però, le mie domande si arrestarono e mi tornò in mente il volto di mia madre l'ultima volta che la vidi, i suoi occhi non davan lacrime, ma portavan segno d'averne sparse tante; c'era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un'anima tutta consapevole e presente a sentirlo[2].

Mentre il mio cuore si chiudeva in una morsa di tristezza per la perdita della mia famiglia, smisi di pensare e provai a non ragionare per un po', ma tutto sembrava vano, così iniziai a guardarmi intorno e a focalizzarmi su ogni dettaglio del mondo che mi circondava: guardavo la lunghezza delle spighe nei campi, cercavo di calcolare a mente in maniera del tutto approssimativa il numero delle foglie su un ramo oppure fissavo la strada che stavamo percorrendo irregolare e usurate dalle intemperie, o la barba di mio padre che di giorno in giorno diventava sempre più lunga e folta.

Cercavo di non concentrarmi sul passare dei giorni, perché se l'avessi fatto avrei saputo anche in che giorno era morta mia mamma. Sapevamo tutti, infatti, che la maledizione portava alla morte di  una persona dopo dodici giorni da quando la si aveva ricevuta, così se evitavo di contarli non avrei mai saputo il giorno di morte di mia madre o della cara Cecilia o della dolce Agnese.

È per questo che non so dirvi quando arrivammo in città, mi ricordo tuttavia che era un martedì di giugno, il sole era alto nel cielo, e dalla città provenivano maleodoranti odori.

Già ad un primo sguardo compresi che Modona non era come l'avevo immaginata, infatti non aveva grandi torrioni o mura bianche e maestose: dieci o quindici volte più grande di Milano, la città che mi trovavo di fronte aveva delle mura alte, ma non altissime, spesse quel tanto che bastava perché sulla sua sommità potesse passarci un carro o forse anche due.

Una volta entrati attraverso Porta Sant'Agostino, notai subito la torre, che pare un palo capovolto, e le contrade corron di fango e merda a mezza estate; le case affumicate con portici di legno in sui balestri e catapecchie e canalette e destri, e sui canti maestri e ai fianchi de le porte in ogni parte masse di stabbio vecchio inculte e sparte e in un buco in disparte ha il potta suo, ch'ogni altra cosa eccede, ch'è tanto piccolin che non si vede[3].

"Padre, siete sicuro che sia questa la città nella quale dobbiamo venire ad abitare?" chiesi invano, nella speranza che per un fortuito caso del destino avessimo perso la strada e ci fossimo smarriti, ma dagli occhi di mio padre non traboccava che tristezza per la decisione che aveva preso, il che mi suggerì che quelle case edificate le une accanto alle altre, come a costituire un piccolo labirinto di Teseo, che quei canali sudici e quei portici all'apparenza insicuri e fatiscenti sarebbero stati la mia casa, finché Iddio non avesse deciso che il castigo poteva bastare.

"Ludovico" disse l'uomo che aveva preso la decisione di abbandonare Milano, per questo sudicio posto "Ludovico" ripeté girando completamente il capo verso di me per controllare che gli prestassi attenzione, "non scendere dalla carrozza finché non saremo giunti di fronte al palazzo che ti indicherò; quando saremo in procinto di arrivare tu ti preparerai ed uscirai, non prima, non voglio che il morbo contagi anche il mio unigenito maschio." Dette queste parole, si girò verso il cocchiere della carrozza e con un gesto della mano tipico del suo rango elevato disse "Proseguite nella direzione che sapete" e così fece il buon uomo, che si fermò davanti ad un grande portone in rovere scuro. "Padre, che splendido portone" dissi, sorpreso di trovare qualcosa di così elegante. "Convengo, figliuolo. Ma non lasciarti abbindolare dalle apparenze." a quell'affermazione tutto il mio entusiasmo ed il mio stupore si smontarono.

Dovevo aspettarmelo, non era altro che una di quelle case di facciata che all'interno nascondono topi, legname marcio e fetidi odori. "Ludovico, ti potresti affrettare a scendere per cortesia, non vorrei che il morbo prendesse anche noi!" disse mio padre in tono severo e con il volto distrutto alla sola idea che ciò avvenisse.

"Perdonate padre, mi ero assentato a riflettere." e così dicendo misi il piede per terra. Dal solo contatto della pianta del mio piede contro il terreno notai immediatamente che il suolo sul quale stavo per posarlo non era fatto di ciottoli, bensì di terra irregolare e fangosa. Tuttavia avevo compreso che quella sarebbe stata la mia residenza a lungo, forse vi sarei addirittura morto, perciò non potevo fermarmi a notare queste piccolezze e anzi dovevo cercare di vedere i vantaggi di questo trasferimento che, per allora, mi sembravano ancora oscuri ed incomprensibili.

"Queste sono le cucine"disse mio padre aprendo una porta e poi passava ad illustrare tutti gli oggetti che erano contenuti all'interno della stanza.

"Questa sarà la tua camera" e poi ancora e ancora, quel palazzo celava stanze su stanze. Era addirittura adornato da una magnifica piccionaia, dalla quale si poteva vedere quella piccola cittadina dall'alto ed ammirarla, per la prima volta, in tutta la sua bellezza.

 

Un suono onomatopeico attirò la mia attenzione e mi fece estraniare completamente dalla lettura dell'Odissea che mi stavo accingendo a terminare. "Entrate" dissi in risposta al Toc-toc che avevo appena udito contro la mia porta.

"Buon giorno signorino " disse il servitore entrando, "buongiorno a lei Orlando. Mi dica, come mai questo tono così grave stamattina?" chiesi io con aria ingenua. "Vedete, c'è una cosa che devo dirvi." Avevo paura, sapevo cosa doveva dirmi.

"Devo dirvi" continuò l'uomo "che vostro padre si è ammalato la notte scorsa." Rimasi a bocca aperta. "Per tale ragione ora dipendiamo tutti da lei signorino, ci ordini cosa dobbiamo fare e noi lo faremo" disse Orlando chinando umilmente il capo in segno di sottomissione.

Io rimasi immobile alcuni secondi, cosa ne potevo sapere io, un ragazzo di dieci anni di come gestire denaro, proprietà, cuoche, sguatteri e servitori, per non parlare poi della merce che mio padre aveva messo in magazzino.

"Orlando" dissi con voce seria dopo molti secondi di riflessione, "dovrete aiutarmi in questi giorni, perché altri e sempre più duri ci aspettano e sarà dalle scelte che faremo a partire da adesso che verrà definito il nostro destino più prossimo."

"Signorino, non vi preoccupate, io servirò e consiglierò voi." disse l'uomo, poi piegando nuovamente il capo aggiunse "Se permettete un suggerimento vorrei darvelo adesso,  ma non prendetelo come un ordine, o un tentativo di prevaricarvi, vi prego" si affrettò a dire prima di rivelarmi cosa stava pensando. Io annuii con il capo e con un cenno della mano lo invitai a proseguire il suo discorso: "È mio umile parere che vostro padre, possente come è, potrebbe guarire  se aiutato da un qualche medico" vidi nelle sue parole quel velo di speranza che aleggiava leggero anche nei miei  occhi.

"E sia, ordinate ai due servitori più fidate che abbiamo che vadano a cercare un medico, vedremo chi troveranno disposto ad aiutarci; so di certo che ci sono persone sopravvissute al morbo; pertanto ordino espressamente che vengano trovati individui in grado di curare questo osceno atto di Dio." A quelle parole mi coprii subito la bocca: quello che avevo detto era quello che realmente pensavo, ma non era bene esprimere delle considerazioni così negative nei confronti di nostro Signore.

"Non vi preoccupate" disse il fedele Orlando "condivido la vostra opinione e non ne farò parola con nessuno, potete pur stare tranquillo".

Dopo aver ricevuto quella garanzia mi voltai, ed andai ad affacciarmi alla finestra, tutto era sporco intorno alla mia abitazione. Come sono finito qui?  Cosa può aver spinto mio padre ad acquistare questa residenza?

 

"Signorino, abbiamo trovato un uomo che forse fa al caso nostro" disse Orlando poche ore dopo spalancando la porta senza nemmeno bussare e urlando di gioia. 

"Dite davvero" esclamai io in risposta, con una voce che per dolcezza potrebbe essere comparata soltanto al tono infantile di un bambino che per la prima volta nella sua vita pronuncia la parola mamma.  “Fatelo entrare, presto." Aggiunsi e mi sollevai sulle punte per poter vedere meglio la figura imponente che pian piano si stava avvicinando al mio esile e gentile servitore.

"Buon giorno eccellenza" disse l'uomo dal sorriso buono con l'aria impacciata di chi conosce a memoria il galateo, ma ha difficoltà a metterlo in pratica nella vita reale.

"Buon giorno a lei signore" risposi io applicando le norme d’educazione insegnatemi.

"Scusate, mi piacerebbe proseguire con i convenevoli imposti dall'etichetta, ma vorrei di vedere il mio paziente, per valutarne le effettive condizioni di salute." Quel medico sembrava un semplice garzone e non una persona competente e con anni d'esperienza medica alle spalle. 

"Perfetto"dissi, poi mi voltai verso Orlando ed aggiunsi "vi prego, accompagnate il signore al capezzale  di mio padre." Il mio servitore assentì e fece segno all'uomo seguirlo, così i due scomparvero nei meandri del  palazzo. Il medico rimase tutta la notte, impedendomi di dormire, ma soprattutto provocandomi un dolore straziante al cuore. Infatti, la cauterizzazione dei bubboni richiedeva di essere svolta subito, con conseguenza fisiche devastanti per il paziente.

Così fu anche per mio padre, che per tutta la notte lanciò grida tormentate, lacerando il silenzio della mia stanza; il dolore in quella voce roca era così forte che mi provocò un pianto senza fine.

La mattina seguente mi alzai desideroso di sapere che tutto era finito, che mio padre era salvo. "Signorino" disse Orlando richiamando la mia attenzione "vostro padre non è ancora guarito."

"Lo sospettavo, ma non avevo perso la speranza." dissi io con una voce ricca di emozione. "Vi prego, mandate qualche donna a cercare un altro medico. "  conclusi.

"Vorrei, signor Ludovico, ma non sono sicuro che sarà possibile. Vedete dallo scorso primo settembre è stata emanata una proibizione che vietava a donne e ai puti di uscire dalle loro abitazioni, pena un'ingente ammenda[4]." disse il servitore di rimando.

"Allora mandateci un uomo." soggiunsi io con voce un poco insolente ed irritata.

"Ma, si rifiutano signore, dicono che il demonio li attaccherà e che moriranno tutti" disse Orlando con voce tremante.

"E sia, l'andrò a cercare io di persona."  dissi villanamente, "Non vi permetteranno di circolare in libertà, il bando, nega questo diritto. C'è tuttavia un cavillo giuridico che vi consentirebbe di proseguire nella vostra ricerca: dovete sapere che la multa non vi sarà data se vi muoverete in carrozz.”

"Eccellente” esclamai io sbrigativamente. “Siete sempre di grande aiuto, Orlando. Ora vi prego di andare a prepararmi un carro coperto, in modo tale che possa essere considerato carrozza, ma che possa essere condotto da un solo individuo." dissi e così mi avviai verso la piccola stalla che avevamo al piano terreno.

Una volta uscito mi affrettai a raggiungere la via che le donne ai miei servigi mi avevano indicato, questa portava a piccole case con un sol piano; impressionato dalla miseria di quell'area della città rimasi sorpreso quando mi resi conto che quello di fronte a me era il medico che stavo cercando e che quella era la sua umile residenza.

"Scusate buon uomo" mi sporsi al di fuori della copertura per attirare la sua attenzione. Che tuttavia gli avevo già catturato, essendo la mia lussuosa carrozza molto fuori luogo in quel contesto di miseria. "Dite signore cosa desiderate" rispose l'altro.

"Siete voi vero il signor Lucchi?Le mie domestiche vi hanno indicato come l'unico medico della città in grado di curare mio padre.Vi prego aiutatemi."Pronunciai l'ultima frase con tono implorante.

"Mi spiace figliuolo; ma ho deciso che non opererò più fino alla scomparsa del morbo. La mia vita è troppo a rischio quando entro in contatto con un paziente."

Dovevo aspettarmelo. Tutti si rifiutavano di intervenire, e chi lo faceva era solo perché ridotto alla disperazione; ma non potevo abbandonare così la mia causa, non gli avrei consentito di vincere.

"E se vi consentissi di vivere nel mio palazzo come ospite a vita, nel caso in cui salviate la vita a mio padre? Così voi potreste vivere in una zona migliore di questa e i vostri figli potranno studiare, cosa che consentirà loro di andare lontano nella vita  e vostra moglie non si dovrà occupare delle faccende domestiche: per quello ci saranno le cuoche e le serve. " mi rendevo conto che la posta in gioco era alta, ma per salvare la vita a mio padre avrei fatto carte false.

L'uomo esitò un attimo, durante il quale mi fissò dritto negli occhi, poi sembrò trovare quello che cercava. "Voi siete il figlio del nobile Milanese che è arrivato in città da poco ed ha acquisito quel palazzo imponente?" io feci cenno di sì con la testa. "Ebbene giovanotto sapete fare affari voi. Proverò a curare vostro padre!" Tentai di sorridere per la felicità, ma il mio volto si rifiutava di assumere quell'espressione di serenità, era come se si rendesse conto del fatto che mio padre non era ancora stato curato.

"Venite, salite forza non c'è tempo da perdere." e così dicendo feci spazio all'uomo sul carro.

I giorni trascorsero e mio padre non mutò le sue condizioni in meglio, ma, al contrario di me, il nuovo medico non perdeva la speranza: ogni mattina somministrava a mio padre intrugli naturali, che gli riproponeva poi a metà giornata e prima di coricarsi. Quando gli chiedevo come stesse mio padre, quell'uomo, denutrito e dai pochi denti, mi diceva. "In dieci giorni potrebbe guarire." Ma i giorni trascorrevano e tutte le volte che gli ponevo la stessa domanda lui proferiva sempre la stessa risposta; come se quei dieci giorni potessero andare avanti in eterno.

Poi una mattina mi svegliai sentendo mio padre urlare di dolore. Scesi dal mio giaciglio più velocemente che potei; attraversai tutto il corridoio; salii i pochi scalini che mi separavano dalla porta dietro la quale giaceva mio padre; poi mi fermai a riflettere.  Sapevo di non avere abbastanza coraggio per vedere la morte negli occhi di mio padre; così aspettai l’arrivo del medico per informarmi sulle sue condizioni.

 

"Perdonate signor Lucchi come sta?" domandai. "Figliuolo, pregate, e se sarete fortunato domani starà bene, è un uomo forte, ed ormai è afflitto dal morbo da 12 giorni, il che è un buon segno." io lo guardai negli occhi cercando di comprendere se veramente ciò che mi diceva era la verità. Ma non c'era emozione in quello sguardo, come in nessuna degli abitanti del nostro ducato. Tutti erano spenti, tormentati dal dolore  per i parenti che avevano persi. Così anche se il morbo non li aveva catturati fisicamente aveva preso la loro anima e l'aveva portata via assieme a quella dei defunti.

Quella notte pregai insieme a tutti i miei servitori che si erano riuniti in veglia per aiutare il loro padrone. Di fianco a me sedeva Orlando con le guance rigate dal pianto, un pianto silenzioso, ma pur sempre rappresentativo della sua sofferenza.

 

La mattina dopo la campana suonò sei rintocchi e noi ci alzammo tutti per andare a vedere le condizioni di mio padre. Erano due settimane che non lo vedevo, ma ero emozionato all'idea di rivedere la sua folta barba nera, i suoi grandi occhi scuri come la notte e grandi come noci; perché avevo paura; così lasciai andare avanti Orlando implorando di controllare accuratamente le condizioni di mio padre. Lui, però, si rifiutò terrorizzato dalla possibilità di contagio; così aspettammo un'altra ora e facemmo entrare il medico che dopo una decina di minuti uscì, aprì la porta quel tanto che bastava per far comparire il suo piccolo e scarno volto costellato da pochi capelli ricci.  "Signorino Ludovico, devo informarvi del fatto che vostro padre è sopravvissuto al morbo. Lode sia fatta a Dio." disse l'uomo guardando verso il soffitto; come se alzando i suoi occhi riuscisse a scorgere la Figura Divina. "Sempre sia lodato" rispondemmo io e Orlando in coro. Poi ci guardammo negli occhi e scoppiammo in una fragorosa risata.

 

Quella mattina era il 14 novembre 1630 ed era la giornata di Sant'Omobono.

 

Maria Laura Rebecchi

 

 

 

5 .   Ecco il testo del terzo vincitore della stessa sezione

Tre giorni…

 

Qualche tempo fa ho trovato una curiosa storia, apparentemente una sorta di diario, che parla degli ultimi giorni di vita di un appestato modenese; purtroppo il testo è stato redatto nel 1630, quindi il suo linguaggio non è molto chiaro, ho così deciso di tradurlo e di darvi un’ interpretazione con un linguaggio più moderno, per facilitarne l’ immedesimazione di chi fosse interessato a questa curiosa storia che ci fa capire molti aspetti sulla vita ed i valori di quel secolo.

 

 

Tre giorni. Questo è l' inizio della mia storia. Come forse avrete capito questi fantomatici tre giorni, non sono che un conto alla rovescia. Vi chiederete: un conto alla rovescia per cosa? Potreste pensare che sia per una festa di compleanno, una cerimonia, una ricorrenza o comunque un avvenimento importante per la mia vita. Purtroppo non è per il mio compleanno o per altre ricorrenze, ma è un evento importante per la mia vita, anche se in fondo questa frase è un controsenso; sì, perché fra circa tre giorni io sarò solo un cadavere tra gli altri di coloro che mi hanno preceduto. Non è facile da accettare, sono il primo a dirlo, ma ormai è passata quasi una settimana da quando il medico del quartiere è venuto a visitarmi con tanto di maschera con nasone da uccello, per comunicarmi che la peste mi ha contagiato insieme a tanti altri, come era facile capire visto che oggi, 11 novembre dell' anno 1630 nella città di Modena, è solo l' ennesimo giorno in cui si registrano decine di appestati che vagano per le strade della città. E così è cominciato, o meglio cominciato a finire, tutto.

Questo mio racconto come avrete certo capito, inizia sette giorni dopo che mi hanno comunicato la mia prossima morte; questi giorni lì ho spesi chiuso in casa, avvolto nella depressione e nella tristezza della mia situazione. Ma ora ho deciso di reagire, certo non c'è una cura per la peste, ma ho deciso che spenderò questi ultimi giorni che mi restano facendo tutto ciò che non sono mai riuscito a fare nella mia misera vita di ormai ragazzo diciottenne; certo non sarà facile visto che qualche giorno fa ho visto degli strilloni per le strade comunicare il fatto che gli infermi non possono girare per le vie della città, che chiunque disubbidisca sarà punito con la vita¹. Però alla fine mi sono detto: "Ma che te ne può importare Jacopo, tanto fra pochi giorni sarai comunque morto!". Ho pensato così di riordinare le idee e pensare a cosa fare in questo poco tempo che mi rimane: a forza di pensare e pensare mi sono accorto che la cosa che più vorrei fare, e che non sono mai riuscito a fare prima, è una e una sola: conquistare il cuore di una ragazza. "Quale?" Sarà probabilmente la domanda che si starà formando nelle vostre menti, ebbene la ragazza in questione è una delle fanciulle che vivono alla corte del duca, un tempo mia amica di infanzia ma che a causa della nostra diversa estrazione sociale, mi è stata tenuta distante per ormai troppo tempo.

Voglio fare per lei qualcosa che le faccia capire quanto sia speciale e importante per me; ma cosa? Una cena romantica? No, non è il caso, è troppo banale e poi nella mia condizione dubito che sarei in grado di sopportare lo sforzo. Una poesia allora? Nemmeno, non sono mai riuscito a scrivere più di due versi in rima, e anche quelli non sono mai stati soddisfacenti. Ecco cosa farò! Le canterò una canzone! Ma sì, al giorno d' oggi non sono in molti a saper suonare la chitarra e io sono anche abbastanza bravo, o almeno quel che basta per riuscire nel mio intento. Ma i tempi stringono, ed è meglio iniziare subito.

Eccomi qui, col mio strumento in mano intento ad accordarlo a dovere, mentre dalla strada sento arrivare i pianti di coloro che stanno consegnando i corpi dei loro cari ai monatti e ai becchini, dicendo loro ciao per l' ultima volta e sperando che essi non abbiamo sofferto troppo nel loro passaggio a miglior vita. Da un lato tutto ciò mi fa pensare al fatto che, tra pochi giorni, sarò io ad essere disteso su quei carri cigolanti da tutti maledetti, dall' altro mi fa capire che devo sbrigarmi a comporre la mia canzone; ma ormai si è fatta sera ed è meglio andare a riposare pronto per ricominciare domani nel pieno delle forze, sperando che esse non mi lascino nel corso della nottata.

 

Due giorni. Eh sì, il tempo purtroppo scorre lento e inesorabile senza che nessuno possa fermarlo. Esso mi è contro da qualunque punto di vista, perciò stamattina mi sono svegliato alle prime luci dell' alba, mi sono lavato, ho mangiato la mia colazione e mi sono subito fiondato alla mia fedele chitarra, che aveva mantenuto l' accordatura dalla sera precedente. Non appena ho iniziato a sfiorare le sue corde, ho capito che in fondo non c'è niente di più bello di una semplice nota: viene generata per caso, una semplice vibrazione che può rendere perfetta un’ intera melodia, e dopo semplicemente svanisce nel nulla da cui è stata creata pochi istanti prima. Ha una vita semplice ma significativa per il suo scopo, e cioè toccare il cuore delle persone, cosa che spero di fare io con quello di Isabella.

Già, penso ancora a lei, nonostante la malattia si stia velocemente impossessando del mio corpo specie per il fatto che i bubboni sulla mia pelle mi creano sempre più dolore ogni momento che passa, il mio cuore e le mie preghiere vanno a quello dolce fanciulla che probabilmente ora sarà accanto ad una finestra, come suo solito, ad osservare l' orizzonte con quei suoi occhi di un azzurro chiaro come il mare che cerca invana di scrutare ogni giorno; nel frattempo il vento scosta in mezzo al suo sguardo una ciocca di quei suoi stupendi capelli gialli come l' oro, che scendono lunghi sulle spalle sfiorando un vestito di seta, che la fa sembrare una vera principessa ai miei occhi di giovane innamorato. Ed è proprio di questo che i miei accordi cercano di raccontare, senza purtroppo rendere giustizia ad una bellezza, che a stento riesco io stesso a descrivere, a voi che leggete questa cronaca degli ultimi giorni di vita di un povero appestato.

È proprio strana la vita non trovate? Un giorno passeggi tranquillamente con i tuoi amici per le strade della città, e un altro ti ritrovi con la vita appesa un sottilissimo filo, a scrivere una canzone per una ragazza che probabilmente ignora la tua esistenza. Sì, è proprio strana, anche perché nessuno può dirle che fare, fa tutto di testa propria. Noi esseri umani non possiamo che esserle grati per il fatto di poter essere vivi, ma allo stesso tempo le siamo tutt' altro che riconoscenti perché quando ne saremo privati, ci lasceremo alle spalle tutto il dolore che si affliggerà sui nostri cari; tutto questo poi avviene in un attimo, senza che neanche abbiamo la possibilità di accorgercene, e così nel giro di pochi secondi siamo nelle mani di Dio, sperando che sia misericordioso con la nostra anima.

Ancora una volta il sole scende giù nella vallata, segnando la fine di una giornata che per me è stata abbastanza produttiva dopotutto, visto che sono oltre la metà del mio lavoro; la canzone è quasi pronta, ora non mi resta che pensare a come cantarla, come presentarmi a lei, e tante altre cose che anche se possono sembrare insignificanti, alla fine hanno il loro peso sulla bilancia. Mio malgrado, devo lasciarvi un’ altra volta; spero di riuscire nel mio intento, quella ragazza merita di sapere di essere amata.

 

Un giorno. Ci siamo quasi, la mietitrice si appresta a tagliare la mia testa, ormai piena di sofferenze che mi tolgono le forze vitali man mano che la mia ora si avvicina. Questa notte l' ho passata insonne, un po' per i pensieri che balenavano nella mia mente, un po' perché le numerose grida provenienti dalle strade non me lo avrebbero permesso; li capisco, al loro posto non so neanche se ce la farei, la peste che io stesso sto provando sulla mia pelle è una morte lenta e dolorosa, ma il mio animo è forte e devo resistere per raggiungere il mio scopo. A tal proposito, in questa notte piena di pianti e lamenti, tra i tanti suoni che si sono sentiti al chiarire della Luna piena, si sono aggiunti quelli della mia chitarra, che mi hanno permesso di terminare la mia melodia.

Ho finito da poco di consumare un misero pranzo, che basta comunque a saziare questa mia fame malata; è appena passato il mezzogiorno e ciò mi fa pensare che è meglio agire col favore delle ombre della sera, piuttosto che rischiare di essere ucciso dalle guardie ancor prima che sia giunta la mia ora. Ho quindi guadagnato un po' di tempo, ed è mia intenzione spenderlo osservando per un’ ultima volta la città, in tutto quel suo splendore che emana ogni volta che la si osserva con l' attenzione di chi guarda col cuore; non credo purtroppo di riuscire a descriverla bene, ma la mia idea è che ogni piccola cosa può far nascere un sentimento da ricordare, come vedere i bambini giocare spensierati per le strade, oppure gli anziani che i ricordano i giorni della loro giovinezza in compagnia, persino gli animali che si rincorrono sono in grado di strapparmi un sorriso.

È questo quello che preferisco di questa città: la semplicità. Sì perché al contrario delle grandi città che sono sempre caotiche a causa dei cigolii e del rumore delle ruote dei carri per le strade, per gli strilloni che gridano tutto il giorno nuove notizie e anche per il fatto che seguono sempre regole rigidissime senza la minima emozione, qui invece si cerca di vivere l' attimo senza curarsi del mondo che ci circonda, pensando alla felicità della popolazione disprezzando coloro che vogliono privarcene.

Dopo questo ultimo momento di malinconia, sto andando verso il mio armadio per scegliere dei vestiti perlomeno decenti per la missione notturna. Ne ho trovati subito di adatti e li ho provati: perfetti. Anche con la chitarra imbracciata non mi danno fastidio nei movimenti; sto facendo una piccola prova generale per essere sicuro che le cose vadano per il meglio. Sarebbe bello che ci fosse qualcuno ad ascoltarmi, ma purtroppo sono stato messo in quarantena e nessuno può né entrare né uscire da questa casa, quindi devo sperare che i miei sforzi non siano stati vani.

È giunta la notte e l' agitazione si muove in me come se mi fosse entrato un serpente sotto i vestiti, e si è unita al caldo che insopportabile mi avvolge a causa della peste, ma non ci bado; penso anzi al fatto che, a differenza delle giornate precedenti, oggi non ho sentito nessun urlo disperato, nessun cigolio di carri, niente di niente. Sembra quasi che oggi nessuno sia morto di peste, e questa mia idea mi è confermata dal fatto che in questo esatto momento gli strilloni hanno iniziato a girare per la città a comunicare che nell' odierno 13 novembre 1630 non è stato trovato nessun cadavere vittima della pestilenza. "Per ora", penso subito io, dato che questa è ormai il mio ultimo giorno sulla Terra; ma tutto ciò non fa altro che darmi coraggio, pare che vada tutto per il meglio, così mi avvicino di buona lena alla finestra della mia amata.

Per un attimo tentenno, poi mi faccio forza e inizio a dire prima a bassa voce poi più forte il suo nome. Non appena esce, la sua bellezza mi rapisce ed io folgorato da quella magnifica vista le dico: 

"Isabella! Sono io Jacopo! Forse tu non ti ricordi di me, di quelle volte che da piccoli giocavamo insieme per queste strade deserte, ma io mi ricordo di te, di questo e anche di altro ancora. Stasera voglio farti capire cosa provo per te, cantandoti una canzone che io stesso ho scritto per te, mettendoci tutto il mio cuore, sperando di fare breccia nel tuo."

E così inizio a suonare e a cantare, sotto il suo sguardo in principio smarrito e pieno di dubbi, poi sempre più cosciente di ciò che le mie parole le riportano alla mente; tra noi si sviluppa una sorta di empatia, grazie a cui ognuno riesce a capire cosa prova l' altro: lei di me capisce finalmente il mio amore, che le è stato nascosto per così tanto tempo, ed io di lei scopro un cuore grande che viene riempito sempre più, nota dopo nota, e che, man mano che il tempo passa, diventa sempre più mio. Quando termino il mio canto l' emozione per entrambi è così forte, che per alcuni istanti rimaniamo in silenzio, semplicemente guardandoci nei nostri occhi ora pieni di lacrime; ma improvvisamente sento un rumore metallico avvicinarsi: stanno arrivando delle guardie. A quanto pare la mia chitarra è stata troppo fastidiosa per le altre genti del palazzo; sono quindi costretto ad asciugarmi gli occhi con una manica e a scappare via, sempre più lontano, senza neanche avere l' occasione di porgere un ultimo saluto alla mia amata.

La mia dipartita non è stata come l' avevo immaginata, anche se a dirla tutta non so nemmeno io come avrei voluto che finisse la serata, in fondo in fondo forse è stato meglio così, non sarebbe stata una conversazione semplice: le avrei dovuto parlare della mia situazione e di altri miliardi di cose che ad essere sincero preferisco che lei non sappia, per non rischiare di farla soffrire troppo.

Sono ormai arrivato alla mia casa dopo un lungo inseguimento per le vie della città, a cui sono scampato conoscendo qualche scorciatoia che mi ha fatto seminare gli uomini in armatura che cercavano di prendermi; sono disteso sul mio letto con ancora addosso i vestiti; e miei pensieri vanno ad Isabella che ora sa di essere amata, e spero che grazie alla mia azione non perda mai la speranza verso una vita migliore. Questa speranza però per me ormai è scomparsa, si dice che essa sia l' ultima a morire ma, a quanto pare, alla fine muore pure lei.

Non ho più alcun tipo di forza, la corsa mi ha sfinito, le poche energie che questo maledetto morbo mi aveva concesso stanno ormai svanendo lentamente; è un dolore indescrivibile che mi avvolge completamente senza lasciarmi via di scampo, non riesco a sopportarlo. Qualche giorno fa un menestrello ha pronunciato questa frase "è meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente", penso proprio che faccia al caso mio, dopotutto la notte è ancora giovane e oggi non è stato registrato nessun morto per peste; non voglio negare questa gioia alla mia città, ma soprattutto non voglio che questo destino sia per me tanto crudele.

La soluzione mi arriva subito ed attuarla mi costerà solo una parte del mio coraggio: togliermi la vita da solo. Sì, penso che sia la cosa migliore: non solo smetterò di soffrire ma sarò anche in grado di dare un brutto colpo al fato che in questo modo non farà il suo gioco. Beh, sarà facile, una corda e un bel nodo sono tutto ciò che mi serve; un bel salto e sarà tutto finito nel giro di pochi minuti, almeno Isabella sa ciò che provo, anche se ora che ci penso avrei potuto...